LA REGINA DELLA CAMPAGNA, tratto da Irene Rui, "Donne:serve, regine ed operaie", VampaEdizioni, Vicenza 2009
“In quel lontano mondo senza alfabeto e senza libri, l’individuo riponeva affidamento al proverbio e si orientava sulla norma e sul costume conservati dalla tradizione. Il comportamento della gente era dominato dalla fede e dalla superstizione, divise in parti uguali. La famiglia appariva come unità produttiva prima ancora che nucleo affettivo e strumento di trasmissione di valori umani e culturali.”1
Prima dell’evento dei laboratori, delle fabbriche, l’agricoltura ha significato per la società contadina un’elementare lotta per la sopravvivenza alla fame. Una lotta che coinvolse intere famiglie che ponevano in concorrenza la fatica umana per il rendimento del podere, per il possesso o meglio per la possibilità di avere a mezzadria o in contratto di succida la terra, per quindi una speranza di vita. Nella realtà contadina la donna era costretta ad accettare una condizione subalterna all’uomo e al lignaggio maschile, ad affrontare fin dalla nascita un ambiente ostile e condizionante la sua personalità. Il pensiero sociale ha di fatto sempre cercato di riservare alla donna il ruolo di matriarcato, ma nella realtà l’assoggettava al diritto patriarcale. Il lavoro della donna contadina dalla fanciullezza alla maturità, da soggetto subalterno al quadro familiare, a quello reggitrice del patrimonio comune nella conclusione della sua vita, è una storia complicata da raccontare e non sempre è possibile focalizzare le fatiche di queste regine agricole. Nel mondo contadino della prima metà e negli anni sessanta del Novecento, è ancora presente l’antico concetto che la donna sia un essere inferiore.2 Le famiglie contadine la ritennero sempre un ingombro e questo perché il maschio, e solo lui, rappresentava un incremento notevole al capitale domestico
In realtà la donna non solo allevava i figli, custodiva il focolare, rattoppava, tesseva, ma accudiva anche l’attività agricola e pastorale che il maschio disdegnava.
“Nessun maschio al mondo avrebbe mai la viltà di fare un vero triplo turno, costituito di lavoro casalingo, un'occupazione extra-domestica, procreazione e allevamento dei figli.”3
La donna contadina prima e operaia poi, dimostrò di non essere il cosidetto “sesso debole”, bensì di avere una gran forza fisica e morale tale da superare difficoltà maggiori dell’uomo. Dopo essersi, infatti sobbarcata tribolazioni e fatiche non indifferenti, essa avrebbe abnegato la maternità e la sua sessualità ai desideri dell’uomo e tal volta dei padroni.
Nell’agricoltura la donna era comunemente impiegata come bracciante negli stessi lavori affidati all’uomo. Queste donne a poco più che ventenni, prima del tramonto della loro vita, a forza di figliare, sobbarcassi fatiche, caricare pesi e di stremarsi dal lavoro, erano già vecchie e sfatte. Dal loro volto si vedeva sfumare la giovinezza e il loro corpo non aveva più quell’aria attraente e fiera che aveva fatto innamorare o si era fatto scegliere dai loro uomini. Malgrado il loro lavoro, il loro agire non avesse nulla da far invidiare a quello dell’uomo, fino all’inizio del Novecento, furono escluse dal diritto di contrattare il prezzo delle loro fatiche, dal mercato del lavoro extradomestico se non come merce da collocare da una parte o dall’altra. Quel mercato che le sceglieva in base alla loro robustezza, alla loro sanità e alla loro operosità, che le considerava bestie e non persone. Considerate vere “some da lavoro”,4 non conoscevano né riposo né festività, tranne che nei momenti delle “sante messe”, che per redimere i loro peccati erano condotte o invitate a parteciparvi come brave cristiane. Il marito, il padre, il maschio di famiglia o comunque il capo famiglia, aveva il solo diritto di contrattare il prezzo della loro fatica extradomestica. Il marito era colui che possedeva il portafoglio mentre la moglie, aveva il duro compito di far quadrare con le proprie arti, il bilancio famigliare. Arti che permettevano alla famiglia di sopravvivere e di cui esse non ne erano padrone. Arti per cui erano scelte come spose, come investimento famigliare. Anche le loro famiglie le consideravano un grazioso animale senza anima, una bestia da soma e da riproduzione.5
Le donne contadine già nell’Ottocento, lavoravano in casa al telaio per conto degli imprenditori di cotone o canapa, che distribuivano alle famiglie contadine le commesse. La tessitura del cotone, della canapa e del cotone misto era faticosa, si protraeva fino a tarda sera e al lume della candela. La donna disponeva di venti fili di base e per due ore legava i mille fili di testa, preparava le spole e infine giasava e spazzolava energicamente il tessuto per renderlo liscio ed uniforme.6La gran fatica arrivava quando esse dovevano tessere la tela di canapa, in quanto più pesante e dura. Erano tele larghe novanta centimetri e lunghe diciotto metri. Lavorando in due, per tutta la giornata fino a sera, l’operaia-contadina riusciva a fare mezza pezza al giorno.7
Nei laboratori casalinghi si filava e si tesseva anche la lana che richiedeva una distribuzione dei compiti ben precisa tra i diversi soggetti della famiglia. Alle donne e ai fanciulli oltre al lavoro in campagna, competeva la scardassatura, la cernita, la preparazione e la filatura della lana, mentre all’uomo spettava il lavoro di pulitura, tessitura e cardatura.
Quando sono nata mio padre mi disse “Le arrivada, andemo a lavorar”.
“…facendo ben intendere che non aveva intenzione di far festa o brindisi per l’ultima arrivata. Era il maschio l’erede! Per lui la campana suonava tre volte, saltava fuori dal cassettone la tovaglia bianca profumata di lavanda, si moltiplicavano i pani e i vini come nella parabola del Vangelo, si metteva da parte una brenta dell’annata migliore pensando già al giorno della leva. La lepre restava due giorni nel tegame di terracotta coperta dal vino nobile insieme con la carota, il pepe, la foglia di lauro e tutti quei sapori che qui da noi sono i sapori di festa”8
Partorire una figlia non era un evento per la madre da far meritare i complimenti e trattamenti particolari come nel caso della nascita di un maschio. Fin dal primo vagito non c’era stima per le regine della campagna che un giorno avrebbero profumato di letame, avuto le mani tagliate dal gelo e dall’usura, le piante dei piedi durre come il cuoio. Un rispetto che non l’avrebbero meritato per tutta la vita, dove sarebbero andate incontro a patimenti e fatiche, in una giornata infinita di lavoro nella quale non c’era pausa, neppure durante i pasti.
“…Dopo di questo ebbi altri undici figli… Quando mio marito veniva a sapere dall’ostetrica che era un maschio, diceva che ero stata brava, mentre quando era femmina, diceva che non ero buona di fare nulla.”9
“…Anche il secondo parto avvenne in casa: tutto andò bene e nacque una bambina, ma morì dopo due giorni, perché mia suocera non l’aveva coperta subito e così prese freddo.”10
Nascere bambina nelle campagne nell’epoca antecedente gli anni sessanta del Novecento, appariva come una disgrazia. 11 La femmina una volta svezzata, avrebbe imparato le arti agricole che avrebbe trasferito senz’altro in un’altra famiglia e doveva inoltre essere dotata. Il tempo che le era dedicato all’insegnamento delle arti, non era considerato un buon investimento in quanto una volta imparato il mestiere se ne sarebbe andata in un’altra azienda agricola, con un contratto di matrimonio, a fare da serva. Era meglio investire nel maschio che rappresentava l’unità e la continuità del patrimonio economico familiare, il continuatore dell’impresa contadina.
Nascere femmina significava veder tramontare presto il tempo delle “ninne e nanne”, delle filastrocche e delle bambole;12 voleva dire che la voce della madre che aveva appena finito di cantarle le “ninne e nanne” e di raccontarle le storie, ora le chiamava al lavoro prima dell’alba. Dai nove anni in su le fanciulle mentre imparavano a fare le sarte e le mamme, cantando quelle canzoni che avevano appena udito e che da poco avevano imparato ai fratelli, andavano ad aiutare nei campi a spigolare e portavano da bere e da mangiare agli uomini; e quando la necessità era impellente, finivano a fare le bambinaie, a servizio presso altre famiglie o in filanda.
“Addormentavo i miei fratellini più piccoli con le filastrocche che avevo appena imparato dalla nonna…”13
Le bambine smettevano presto a portare il grembiule di scuola per mettere quello di casa. Smettere il grembiule scolastico significava cominciare a lavorare nei campi, aiutando la famiglia in quelle opere faticose che erano la fienagione, la medanda, la spigolatura e la scartocciatura. Iniziavano ad imparare a distinguere i venti asciutti da quelli della pioggia, a sentire nell’aria l’odore della grandine, a distinguere le erbe cattive da quelle curative, a leggere l’ora dalla posizione del sole, a capire l’arrivo del temporale, ad osservare il cambiamento delle stagioni attraverso gli uccelli migratori, ad accendere il fuoco, a fare la sfoglia ed il bucato nei lavatoi o al fiume.
“A dieci anni ci alzavamo alle tre per andare nei campi ad arare. Io tenevo la corda del bue, ma certe volte mi capitava di non fare il passo perché dormivo in piedi… Si tornava da scuola e via a pascolare le bestie.”14
Una volta appreso l’arte dalla “scuola della terra”, era pronta da marito. Entrata nel lignaggio maritale, affrontava una nuova vita fatta di poche gioie e di tante tribolazioni. Imparava o con le buone o con le cattive, a servire, rispettare e ad amare l’uomo conosciuto durante le processioni o per caso al ballo, ma di fatto sconosciuto.15 Apprendeva l’arte di sottomissione al suo volere, del sapersi arrangiare con quel poco che le era concesso, di sottrarsi le cose per se a favore degli altri, di curare gli occhi arrossati dei mariti con i fiordaliso, la loro tosse con le foglie di malva. Con questi mariti invecchiava e si sciupava, vedeva sfiorire la sua giovinezza, figliando e alattando come una vacca e lavorando come una “mussa”.
E poi un giorno ho ripensato alla mia vita
“Essere una donna?
Una persona umana?
E come può diventare una donna se i parenti la
danno, ignara, debole, incompleta, ad un uomo
che non la riceve come sua uguale, ne fa uso come
di un oggetto di proprietà, le dà dei figli con i quali
l’abbandona sola…?”16
Le regine contadine sopportavano con pazienza fatiche e impropri dai mariti e dalle suocere, rinunciavano alle loro fantasie, alle loro attese e alla loro libertà, spesso rimpiangendo i sogni svaniti in un matrimonio deludente e senza amore. Poi, un giorno ripensavano alla loro vita, passata in un lampo a figliare e lavorare come “musse”, scoprivano di non essere più quelle di un tempo. Si rendevano conto che erano cambiate dentro, che erano diventate più sagge, ma anche più aspre. Questo non certo per i capelli bianchi, le rughe o le fatiche della vita, ma per tutte le difficoltà del condurre la famiglia, del lavoro sui campi, il far quadrare i bilanci, i contratti capestro dei padroni, i vari “San Martino” e i drammi della vita, le avevano trasformate.
Guardandosi allo specchio scoprivano di essere diventate esse stesse delle suocere che avrebbero inveito nelle future nuore facendo pesare la loro presenza, si accorgevano che era arrivata l’età per allietare i “filò” con le loro conoscenze ed insegnare la distinzione delle erbe, dei venti e del cielo; capivano di aver fatto una vita da serve e non da regine; scoprivano che tutti i loro sogni si erano fermati lì a quel fatidico “sì”, che le aveva ingabbiate per tutta la vita.
D'altronde il “prette” non aveva forse detto che il marito è il capo della famiglia e la moglie segue la condizione civile di lui? Questo non significava forse che l’uomo era il padrone ed era colui che comandava la famiglia e che la donna doveva remare la barca condotta dall’uomo?
Quanti pensieri nel finire della loro vita e quanta rassegnazione ai dati di fato.
Una classica giornata in campagna
Non si può rendere l’idea del rigoroso lavoro femminile se non analizzandolo lo svolgersi di una giornata tipica della moglie di un agricoltore tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento.
Gli uomini anziani e giovani per alzarsi aspettavano che lei avesse acceso il fuoco in cucina. Solo dopo che la donna aveva servito la ciotola di latte appena munto o avessero bevuto la scodella di vino inzuppandovi la polenta e a volte, ma raramente il pane, uscivano sui campi.17La donna lì avrebbe seguiti di lì a poco, ma prima doveva fare alzare i piccolini e sistemarli, lavarli e vestirli, dare la loro razione di colazione mattutina - consumata solitamente dopo gli adulti con quello che era stato avanzato - e mandarli a scuola dal parroco del paese.18A lei e più tardi alle figlie di nove anni, rimanevano i pagliericci sfatti, lo svuotare e risistemare le “moneghe”,19- che andavano accese alla sera per rendere caldi i letti nelle stanze gelide d’inverno - svuotare i vasi da notte nel letamaio, preparare la sfoglia per il pranzo, attizzare il fuoco e una volta al mese fare il pane che avrebbero cotto nel forno di un vicino o del padrone. I compiti affidati alla regina della campagna non si esaurivano naturalmente, con le faccende domestiche. Lle competevano inoltre, coltivare l’orto e badare all'aia, raccogliere gli ortaggi, sgozzare le galline, i polli e i conigli, compresa la spennatura e la scuoiatura, fare il burro e anche il formaggio; e al mattino prima di predisporre la colazione, la nostra regina aveva già munto le mucche e tagliato la legna per il fuoco.
Queste regine della campagna, una volta conclusi i lavori domestici, fin dalle prime ore del mattino erano già nel campo a fianco, fianco del loro uomo a rastrellare e raccogliere fieno, alzando con le forche le grosse balle che depositavano sul carro trainato dai buoi accompagnati dagli uomini. E mentre il maschio trasportava il materiale con i muli o con i carri, le donne compreso le bambine, lo trasportavano sulle spalle con gerle o su ceste poste nel capo. Trasportavano grossi pesi di foraggio, letame, grano e ogni sorta di prodotto nei granai.20Andavano a vendemmiare tagliando i grappoli chi sotto e chi sopra il carro; a raccogliere il grano, il cotone e quant’altro era coltivato, sotto il sole cuocente o la pioggia battente. Sempre curve a tagliare o a raccattare frutti a mani nude, esperte e veloci, perché per ogni prodotto c’era il tempo della nascita, della maturazione e della raccolta. Un tempo quasi rigidamente regolato dai cicli stagionali e dalle perturbazioni. Bisognava raccogliere i frutti maturi, sempre prima della pioggia o dei temporali che spesso erano causa di ritmi forzati di lavoro. Le faccende domestiche che non erano riuscite a sistemare alle prime ore dell’alba erano trasferite alla sera insieme al rammendo, alla calza, alla maglia e alla tessitura.21Tali lavori venivano svolti nel pagliaio durante il “Filò”.
Un lavoro distruttivo
“Me marì le a let ch’el dorme,
mi son qua a far a‘ndàr la cuna:
questa sì l’è la fortuna
de le femene a cior marì!
Me marì l’è a l’hosteria,
sempre a bever e a magnar,
e la mama coi fioi
solo a piagner e sospirar”22.
Non c’era pace per la regina di campagna che fin dalle prime ore dell’alba era in piedi e terminava a notte tarda. Lavoro domestico e in campagna. I bachi nei mesi primaverili, la risaia tra maggio e giugno, la mietitura da giugno, il taglio della meliga sulla fine dell’estate e la raccolta delle bietole, la vendemmia nel primo autunno. Due volte all’anno il gran bucato con la “liscia” che bruciava il bucato e le mani, e che fatica.23
Ciò che la terra non produceva lo comprava a credito e il bottegaio lo pagava due volte all’anno, con il ricavo dei bachi e la vendemmia. Alla fine di giugno, dopo i bozzoli, si pagava la lista fatta durante l’inverno e a fine settembre si liquidava quella dell’estate, con l’uva nei tini.
Vivere in campagna non era così semplice e bello fino agli anni sessanta del Novecento. Erano tempi durissimi dove le bocche da sfamare erano tante e le donne erano costrette ad andare a lavorare in risaia o in filanda, o prendevano la via dell’emigrazione. Andavano a lavorare in risaia per avere un po’ di riso, con la schiena piegata in due e le zanzare che succhiavano il sangue, in mezzo all’acqua e sotto il sole cuocente dalla mattina alla sera; e in filanda, in mezzo al vapore, agli odori nauseabondi dei bachi e con le mani a continuo contatto con l’acqua bollente, per coprire le spese per il vestiario, la dote delle figlie e l’osteria del “re”, dove il marito faceva debiti più grandi di quelli che facevano in bottega.
L’orto, il porcile, il pollaio, fonti di sussistenza irrinunciabili, erano in ogni modo di competenza della donna. L’uomo comandava e la moglie ubbidiva. La nostra regina si alzava alle tre per ingozzare i polli e farli rendere di più al mercato e spaccare la legna per il focolare della colazione del mattino; vegliava tutta la notte la mucca ammalata nella stalla;24nelle ore di pausa accudiva la casa, cambiava i vecchi infermi nel letto e badava i figli; nelle ore serali dei filò a sedere alla macchina da cucire spingendo con un piede il pedale e l’altro, impegnato a dondolare la culla dell’ultimo nato, il tutto ascoltando il cantastorie che era venuto a portare le ultime notizie dal mondo.
Non potevano ammalarsi le donne contadine, non c’era pace neppure durante la gravidanza fino all’ultimo sul campo a zappare. La gestante infatti, fin alle prime doglie continuava a lavorare nei campi, nella stalla, nell’orto senza mai dimenticare la casa e la cura dei più piccoli. Le doglie finali la potevano cogliere ovunque: nel campo, nella stalla, nel fienile, anche a distanza di chilometri dalla casa, in risaia, in filanda o in posti isolati della campagna.
“Nonostante fossi incinta, andavo a lavorare in campagna fino alla fine… per allattare il bambino mi svegliavo alle cinque: gli davo da mangiare e andavo a lavorare; alle sette e trenta correvo a casa, allattavo il bambino, facevo il fuoco per il mezzogiorno e tornavo in campagna fino all’ora di pranzo… Fortunatamente ho sempre potuto allattare i miei bambini fino a circa due anni. Quando facevo dei lavori pesanti mi mancava il latte e allora preparavo delle pappine…”25
“Mentre ero in campagna a raccogliere il fieno, mi sentii le prime doglie, ma continuai a lavorare; poi non riuscendo più a sopportare il dolore tornai a casa di corsa e nella mia stanza ebbi il mio primo figlio”26.
“Anche quando ero incinta lavoravo molto: andavo nei campi, zappavo, raccoglievo il fieno, tagliavo il frumento con la falce. In maggio mi alzavo alle due perché tenevo i bachi da seta… Davo da mangiare al bambino quando gli altri andavano a mangiare e io mangiavo lungo la strada intanto che andavo a lavorare. Il cibo del bambino era pane grattugiato con l’olio e la polenta perché non potevo dargli il latte… Per tutto il resto del giorno stava solo…”27
L’allevamento dei bachi un compito femminile
Le attività dell’allevamento dei bozzoli dalla trattura alla seta grezza, erano profondamente legate all’agricoltura e vi portavano quel cespite monetario necessario alla sopravvivenza delle povere famiglie agricole. L’allevamento occupa soprattutto manodopera femminile che tuttavia malgrado l’enorme lavoro che svolgeva, quel poco che ne ricavava non era riservato alle sue esigenze ma quelle delle famiglie. Chi invece né traeva maggiore guadagno era il proprietario del podere che per contratto riscuoteva il 60% del raccolto e dell’allevamento. Il gravoso sovraccarico di lavoro che pesava sulle donne e le fanciulle andava dalla sfogliatura dei gelsi alla cura dei bachi, per concludere nelle attività - altrettanto scarsamente retribuite - della filanda. L’allevamento dei bachi era un’occupazione che a prima vista sembrava semplice, ma che realmente richiedeva molta attenzione, in quanto le larve sono molto sensibili e hanno bisogno di cure e soprattutto non devono essere spaventati durante la filatura dei bozzoli. Il lavoro della bachicoltura era una professione molto delicata oltre per quanto descritto sopra, anche perché bisognava sorvegliare che il baco non filasse bacchi doppi o imperfetti.28
“Tenevamo anche i bachi da seta… C’erano i “morari”… li pelavamo e dopo finché i bacchi erano piccoli glieli tagliavamo fini e dopo, più grandi che diventavano, gli si dava questi rami per terra… Un mese vivevano… diventavano grossi come un dito e facevano il bozzolo con la seta e quando diventava lucida era pronta; allora bisognava prenderli su uno per uno e metterli sulla legna: in cucina allargavamo la legna e ci mettevamo tutti questi bacchi da seta. In otto giorni facevano il bozzolo, e dopo si prendevano su di nuovo. Una volta fatto il bozzolo toglievamo il verme e mettevamo i bozzoli su uno straccio bianco su una gabbia e li portavamo all’essiccatoio, al mercato.
…Poi i bacchi hanno cominciato a calare di prezzo, e non ti davano più niente… E allora tutti hanno dismesso …al mio tempo tutti avevano i bachi anche a scuola il maestro teneva i bachi, anche nei comuni. Era una rendita. Si compravano queste carte con gli ovetti e li si metteva al caldo, e dopo otto – 15 giorni nascevano i primi insetti neri.”29
“Anch’io quando lavoravo in filanda dovevo andare casa veloce per pelare il gelso, per dare da mangiare le foglie. Ho fatto anche l’ernia, perché all’ora si andava su per le scale con chili di foglie legate attorno alla vita. Facevamo con la legna fina i graticci anche in cucina…da quando nascano fanno tre dormite e le ultime mangiano in modo vorace. Quando si vedeva che erano belli da fare il baco si prendevano dalla foglia e si mettevano nelle fascine a filare, pensavano loro a trovare il posto.”30
Piccoli proprietari e fittavoli, mezzadri e braccianti, tutti tenevano i bachi, in misura maggiore o minore nei diversi periodi dell’anno ed a seconda delle varie contingenze: andamento del mercato, presenza o meno di malattie, situazione meterologica, accadimenti politici. Il baco era una fonte di reddito molto importante per tutte le famiglie contadine benestanti e meno agiate, per la borghesia e le stesse municipalità. Ognuno aveva la sua bigattiera dove erano poste le uova e il personale preposto al loro mantenimento. Il periodo di allevamento durava solitamente fino a luglio-agosto, periodo che sovente coincideva con la chiusura della filanda, e i bozzoli raccolti venivano portati negli essiccatoi. Periodo che coincideva anche con il maggior carico di lavoro delle donne, essendo esse sia filandere, sia preposte all’allevamento dei bachi, sia al lavoro agricolo e casalingo.
La fase più importante di questo tipo di allevamento era l’acquisto del seme o delle uova dei bachi. L’esperienza nel distinguere le uova buone da quelle di seconda o terza partita, era indispensabile per avere una buona riuscita dell’allevamento. I venditori si rifornivano sì alla stazione bachicologica di Padova,31ma nella maggior parte dei casi dagli allevatori privati appartenenti a facoltose famiglie che dopo un breve corso, s’improvvisavano - anche in modo improprio - industrie semmaie. Le uova erano acquistate al mercato o nelle aziende che avevano la licenza per la produzione,32in garze, telaini garzati, scatolette di carta forate e il peso convenuto era tradizionalmente in once.33La loro distribuzione avveniva solitamente dopo il 25 aprile.
Nei mesi di marzo e aprile, le famiglie o meglio le donne, iniziavano a preparare la casa per ospitare i bigatti. La stanza dove essi venivano depositati solitamente la cucina, veniva sistemata tappando tutte le fessure delle finestre e delle porte con stracci in modo che non ci fosse la possibilità che passassero i spifferi d’aria e il freddo. Accendevano il zolfo per disinfettare la camera e a nessuno era permesso entrare per almeno due giorni. Le donne costruivano poi un campo composto da quattro pali e da delle traverse fissate con perni di legno, sopra le traverse venivano poste delle tavole o graticci di canne che costituivano i letti dei bigatti. Ogni campo aveva circa cinque letti. Accendevano poi la stufa per riscaldare la stanza e una volta acquistate le uova, le mettevano ad incubare sopra un foglio di carta disinfettata che veniva cambiato ad ogni dormita. Qui focolari o stufe erano sempre in azione per mantenere la temperatura attorno ai circa 28°, pena la moria dei bachi o una minore produzione del filo di seta. Le larve quando nascono hanno una lunghezza di due o tre millimetri, sono di colore nero ed escono dalla carta bucherellata ed iniziano ad alimentarsi con le foglie di gelso tagliato molto sottile. Il baco appena nato con la schiusura delle uova ottenuta mediante un periodo di incubazione di circa due settimane. Le donne somministrano velocemente le foglie tagliate, aumentando la dose via, via che la larva voracemente e continuamente lo richiede. Per dare da mangiare ai bachi dei graticci più alti, le donne salivano sulle scale per tre volte al giorno per circa una settimana - fino a quando i bachi non facevano il primo sonno e passavano alla seconda muta - con il grembiule arrotolato sulla vita a mo’ di sacca, pieno di foglie L’alimentazione avviene secondo precisi criteri somministrando continuamente la foglia tagliata e ben asciutta e di quantità via, via crescente con lo sviluppo dei bachi.34Durante le varie età l’operaia effettuava il cambio dei letti che permetteva di eliminare i residui dell’alimentazione e gli escrementi, per evitare l’insorgenza dei processi di fermentazione. Tale operazione consisteva nel disporre sopra le larve la carta bucherellata con sopra le foglie di gelso, una volta che tutti i bigatti erano saliti sul foglio, questo era sollevato e posto su un altro piano precedentemente predisposto. Il vecchio letto era così eliminato e rifatto per nuovi inquilini, avendo cura di raccogliere le larve rimaste. Con il passare dei giorni, dell’avvicinarsi della muta, i bacolini riducevano l’assunzione di foglia e questo era il segnale del cambio di età. L’alimentazione era quindi sospesa per riprenderla quando la totalità dei bachi aveva terminato la muta, questo per garantire l’omogeneità di crescita. Al termine della terza muta, la tecnica di allevamento cambiava, si passava dai graticci ad assi stesi per terra su cui erano depositati i rami di gelso, uno sopra l’altro in senso verticale e rimpiazzati man mano che le larve salivano verso l’alto. A questo punto non c’erano più i cambi di letti, non c’era più la sfogliatura del gelso e si passava alla quinta età, quando la larva si preparava a filare, eliminava il contenuto intestinale, diventava di colore alabastro, diminuiva di peso e dimensioni e ritirava la testa. In questa fase le donne dovevano essere veloci nel costruire un bosco con rami di gelso dove le larve salivano ed iniziavano ad emettere dalle ghiandole sericigine la bava serica che si avvolgeva, facendo un giro ad otto, attorno al loro corpo fino a chiuderlo nel bozzolo. Questa fase durava circa tre giorni.35Una volta che i bozzoli erano stati filati bene, che erano maturi, le operaie procedevano alla raccolta. Le donne e i bambini prendevano le frasche e le portavano nel cortile e delicatamente staccavano dai rametti i bozzoli e procedevano alla spellaiatura.36Poi si procedeva ad una prima cernita tra i bozzoli di prima e di seconda qualità.
I mezzadri e gli obbligati una volta raccolti i frutti li portavano ai padroni dei poderi, i quali a loro volta li spedivano negli essiccatoi delle filande e ne percepivano il guadagno che distribuivano ai loro fittavoli come da accordi convenuti.
Si può paragonare questo tipo di procedimento lavorativo ad una sorta d’impresa agricola che oggi chiameremo parcellizzata, in cui c’è un organigramma al cui vertice c’è l’industria del semaio, poi le varie microindustrie per l’incubazione e la produzione, per passare alla fase successiva dell’essiccatoio e della filanda.
Fino al 1870 nell’ambito dell’allevamento casalingo si poteva procedere anche alla produzione del seme del baco. La produzione del seme era libera e incontrollata ma, la grande crisi dovuta sia alle malattie dei bachi, sia alla produzione non geneticamente perfetta, portò ad una riforma legislativa, che impose la produzione del seme in appositi semai.37
Nel 1870 cambiano le tecniche per il foraggiamento dei bachi e di raccolta del gelso: furono impiantati non più gelsi neri, ma bianchi. 38
Verso la fabbrica
La struttura delle famiglie fino alla prima metà del secolo scorso era di tipo patriarcale, organizzazione presente soprattutto nelle famiglie di origine contadina. La donna non era quindi, mai inserita nelle maglie della comunità come individuo a sé, ma in quanto moglie di, madre di, figlia di.39
Nella seconda metà dell’Ottocento, la famiglia contadina stretta dalla morsa della crisi agricola, dalle imposte sui prodotti agricoli, dalle sempre maggiori richieste dei proprietari terrieri, dalla fame e dalla miseria, si trovò a dover scegliere se la manodopera femminile rendeva più nei campi o a sevizio o in fabbrica.40Con la diffusione delle filande e la richiesta di manodopera femminile nei cotonifici, nei canapifici e nei lanifici vicentini, le donne entrano a contato con il lavoro di fabbrica.41La preferenza della manodopera femminile in opifici dove fino ai primi dell’Ottocento si occupavano prevalentemente manifattura maschile, la si ebbe in quanto il salario femminile era inferiore della metà rispetto a quello dell’uomo. Inoltre le donne erano più disponibili ad una flessibilità oraria. Ciò rese più appetibile la manodopera femminile e delle fanciulle.
Il loro stipendio era concordato con il capo famiglia ed egli riceveva la paga della moglie, delle figlie e delle sorelle nubili. Alla donna non era riconosciuto né un diritto soggettivo né quello oggettivo.
L’occupazione per cui erano assunte tranne in rari casi, era una professione non specializzata, oppure considerata tale e sporca dall’uomo tanto che spesso delegavano alle donne tale compito anche se sovente erano i padroni a scegliersi la manodopera che preferivano anche per una differenza di costi. Gli uomini venivano assunti proprio per quei lavori considerati troppo pesanti per le donne proprio in vigore di un codice o di una norma legislativa.42
La donna ciò nonostante, si è sempre sobbarcata il doppio o triplo lavoro, ha svolto quelli più pesanti e più fastidiosi. Le poverine partivano al mattino e tornavano alla sera, spesso facendo decine di chilometri a piedi e scalze per non consumare gli zoccoli, necessari al lavoro. Malgrado ciò, alla sera di ritorno o al mattino prima di partire dovevano eseguire – qualora non ci fosse un’altra a svolgerle - le incombenze domestiche compreso preparare i pasti per coloro che rimanevano a casa. E durante i fine settimana doveva dare una mano sul campo e svolgere i compiti domestici di fino, badare all’orto e all’aia che non era riuscita a realizzare nei cinque giorni precedenti e naturalmente non doveva dimenticarsi i doveri coniugali.
La conseguenza dell’impiego delle donne contadine in fabbrica fu una rivoluzione sociale non indifferente. Il loro impiego proprio per il loro basso costo, era usato tal volta in forma ricattatoria su quello dell’uomo. La sostituzione della manodopera maschile con quella femminile, comportò quindi non pochi problemi sia sociali, sia economici per le famiglie, creando spesso dei veri conflitti all’interno delle famiglie. 43
Nacquero conviti gestiti all’inizio dal mondo ecclesiastico, poi da quello padronale. Questi conviti servivano ad ospitare la manodopera giovanile proveniente da luoghi lontani e da provincie diverse da Vicenza. Il controllo era tale sulla moralità delle poverine che non avevano modo di socializzare se non fra loro in fabbrica e passavano da una vita sotto il padre – padrone a quella sotto il padrone – padre.
La vigilanza sulla loro morale non era del tutto disinteressata. Meno pensieri amorosi, meno filosofie rivoluzionarie o “grilli” per la testa, significava più resa sul lavoro. In questi conviti erano soprattutto le nubili ad alloggiare, trasferendossi da lontano per entrare in fabbrica, interrompendo così in parte, il rapporto con la famiglia d’origine, ma a volte, finivano anche le madri di famiglia che però avevano il permesso di rientrare o a fine settimana o, a fine mese. Queste si portavano da casa la biancheria da rammendare o riassestare, che sistemavano prima di andare a dormire. Per quelle che tornavano a casa nel fine settimana oltre a sobbarcarsi un lungo viaggio a piedi, il ritorno a casa non era una festa, ma anzi le aspettava le incombenze domestiche, familiari e coniugali. Mentre le fanciulle che rimanevano passavano la domenica in “convento” a pregare o ad imparare qualche economia domestica e solo in caso che ci fosse la badante uscivano a passeggio e comunque tutte insieme come scolarette.44
Conclusioni
“Piangendo lasciasti la tua casa
per venire a far famiglia nuova
con un marito che t’ama e che t’adora.
Un padre, una madre e gente fina
Qui tu sarai nostra regina”
Con questa filastrocca erano accolte le donne nella nuova famiglia. Il giorno prima, con l’abito bianco e i fiori d’arancio erano le regine della festa e il giorno dopo, al posto dello scettro avevano un rastrello nel tempo della fienagione e un falcetto nel periodo della falciatura del grano.
Il giorno prima erano regine e quello dopo serve del castello del re e della regina madre. Per tutta la vita: lavorare, strussare, patimenti e fatiche, una giornata che non finiva mai e il riposo non arrivava nemmeno nell’ora dei pasti.
“Non ho mai mangiato a tavola, ma sempre servendo gli altri, con il grembiule arrotolato in vita e dentro avevo un po’ di pane e di formaggio. A tavola sedano solo gli uomini e i bambini più grandi; per noi c’era il cantone del focolare, dove mangiavano anche i piccoli e il servo di campagna che stava peggio di tutti perché d’estate, dormiva sul fienile e d’inverno nella stalla”.45
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Le donne che invece sceglievano la via dell’opificio, vi lavoravano fino all’ultimo giorno e a volte anche minuto, prima della gravidanza e dopo! Se la fabbrica era lontana rimanevano a casa, per ripresentarsi alla porta dopo lo svezzamento del neonato; quando invece, l’opificio era vicino, scappavano di corsa a casa durante la pausa pranzo per allattare e mangiavano nel ritorno, durante il percorso, correndo e di fretta; in risaia si portavano o facevano portare il pargoletto che allattavano durante il lavoro.
Le balie invece non conoscevano questa “felicità” di allattamento dei propri figli, anzi il loro latte doveva servire alle famiglie borghesi, ma fare la balia significava per queste regine, allontanarsi anche dalle fatiche quotidiane della campagna.46
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1 GIANCARLO GOZZI, Le stagioni della donna contadina, Editoriale Sometti, Mantova, 2000.
2 BENVENUTO (NUTO) REVELLI, Il mondo dei Vinti, testimonianze di vita contadina, Edizioni Einaudi, Torino, 1977.
3 ELENA GIANNINI BELLOTTI, Dalla parte delle bambine, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1973.
4 Somme, termine per definire muli da somma da fatica, era così che erano viste le donne, a tutt’oggi si usa dire la lavora come un mus, lavora come un somaro.
5 Concezione che in alcune realtà maschiliste sopravvivono ancora e che solo dopo le lotte degli anni settanta del Novecento ha visto nelle realtà rurale il diffondessi di un’opinione più umana della donna, anche se nel nuovo millennio c’è sempre qualcuno, qualche istituzione di stampo fondamentalistico-catolica, che riprova a considerare la donna come oggetto di procreazione e non come soggetto.
6Con il termine giassare si intende il processo di preparazione di una colla a base di farina ed urina che serviva ad impastare i fili per rendere il tessuto più robusto e compatto.
7 BENVENUTO (NUTO) REVELLI, Il mondo dei Vinti, testimonianze di vita contadina, Edizioni Einaudi, Torino, 1977, pp. 97-98
8 GIANCARLO GOZZI, Le stagioni della donna contadina, Editoriale Sometti, Mantova, 2000, p.118.
9 Intervista riportata in GIANCARLO GOZZI, Le stagioni della donna contadina, Editoriale Sometti, Mantova, 2000, p.47
10 Intervista riportata in GIANCARLO GOZZI, Le stagioni della donna contadina, Editoriale Sometti, Mantova, 2000, p.47
11 Concetto popolare che durò in alcune zone della campagna veneta, anche negli anni Ottanta del Novecento
12 Bambole fatte di pezze e stracci e gli arti composti da bastoncini.
13 Intervista riportata in GIANCARLO GOZZI, Le stagioni della donna contadina, Editoriale Sometti, Mantova, 2000, p.73.
14 Intervista riportata in GIANCARLO GOZZI, Le stagioni della donna contadina, Editoriale Sometti, Mantova, 2000, p.17.
15 Talvolta i matrimoni erano combinati con uomini che potevano portare ricchezza alla famiglia e prestigio.
16 SIBILLA ALERAMO, Una donna, Editori Riuniti 1978
17 Il pane era fatto, quando c’era la possibilità di avere la farina e un forno padronale, disponibile. Se c’erano questi presupposti era possibile infornare una volta alla settimana. Per renderlo morbido e duratura si usava sovente fare l’impasto con le patate.
18 Questo avveniva solamente nel caso che non ci fosse nessuno a badare alla casa o ai figli. Talvolta i ragazzini venivano svegliati e sistemati prima della colazione degli adulti anche se la loro veniva consumata sempre dopo.
19 I scalda letto.
20 PAUL SCHEUERMEIR, Il lavoro dei contadini, II vol., Longanesi & C. , Milano 1956
21 Nelle campagne anche venete, nelle fredde serate d’inverno era in uso tra le famiglie vicine riunirsi nella stalla. Gli uomini per colloquiare e parlare d’affari, le donne per lavorare a maglia, cucire, filare la lana e tessere. Gli anziani infine, riparavano gli attrezzi, impagliavano le sedie e intrecciavano le ceste, ma spesso narravano storie della comunità contadina ai bambini che sovente ne rimanevano esterrefatti o spaventati. Il filò era un modo di socializzare e di tramandare la cultura contadina. Molte volte nelle stalle mentre le donne lavoravano e avevano il loro da fare a controllare i giovani e le giovincelle e i bambini, gli uomini giocavano a carte.
module=admin&action=publicationPages:editPublication&ref_site=4&nlc__=871334651381#sdfootnote22anc">22 Le donne cantando le “ninne e nanne”, si sfogavano della loro situazione famigliare di madre umiliata e delusa del suo ambiente familiare. Ninna e nanna tratta da GIANCARLO GOZZI, Le stagioni della donna contadina, Editoriale Sometti, Mantova, 2000
23 Fare la “issia”, significava lavare il bucato strofinandolo con la cenere e risciacquandolo con l’acqua gelida delle rogge o dei fiumi. Bisognava stare molto attente che la cenere non bruciasse il bucato che diventava candido come la neve, ma bruciava le mani delle poverette che d’inverno si riempivano di geloni.
24 Il bestiame era considerato di valore maggiore rispetto ad una donna, ad un figlio o ai vecchi della famiglia. Mentre per questi non c’era danaro per le cure, per le bestie si faceva anche debito.
25 Intervista riportata in GIANCARLO GOZZI, Le stagioni della donna contadina, Editoriale Sometti, Mantova, 2000, p.45
26 Intervista riportata in GIANCARLO GOZZI, Le stagioni della donna contadina, Editoriale Sometti, Mantova, 2000, p.46
27 Intervista riportata in GIANCARLO GOZZI, Le stagioni della donna contadina, Editoriale Sometti, Mantova, 2000, p.47
28 In questo caso i bozzoli pur essendo utili a particolari filature di seta, erano considerati scadenti e pagati meno, la loro lavorazione in filanda risulta più difficile e procurava una filo di seta di scarsa qualità. Vedi anche il saggio Una filanda che si perde nella storia” pubblicato nella presente raccolta.
29 Ricordi di zia Nora, intervistata nel 1998.
30 Misaggia Maria nata nel 1914, ha lavorato in filanda per 22 anni, fino alla chiusura, dal 1925 al 1947, residente al momento dell’intervista, 23 maggio 2006, in Torri di Quartesolo (VI).
31 La stazione bachicologica di Padova aveva il compito di controllare la produzione delle uova dei bachi, la ricerca e la sperimentazione di incroci tra bachi allo scopo di evitare che nascessero dei bigatti ammalati che avrebbero infettato gli altri.
32 Queste aziende agricole erano chiamate incubatrici ed erano solitamente grandi proprietà terriere, la quali avevano le possibilità di mantenere le uova e i bachi da riproduzione durante gli inverni freddi e il periodo di marzo – aprile.
33 Un’oncia è uguale a trenta grammi e corrispondeva a circa 40.000 uova.
34 La foglia doveva essere sempre ben asciutta in quanto se fosse stata bagnata od umida, i bachi potevano ammalarsi. Esistevano, infatti due patologie che potevano andare incontro i bigatti: il calcinem che li disidratava e il marson che li marciva.
35 I rami raggiungevano anche i tre – quattro metri di altezza, in quanto il baco essendo un forte divoratore, andava sempre verso l’alto e aveva bisogno di mangiare sempre di più, fino al periodo del completamento del bozzolo in cui nasceva la farfalla, la quale usciva da un buco del bozzolo ed era pronta ad emettere ulteriori uova, che raccolte servivano per la prossima produzione tramite la fecondazione della farfalla maschio.
36 Processo che consisteva nella eliminazione della ragna, ossia della seta emessa dalla larva all’inizio della formazione del bozzolo.
37 Con la rinascita bacologica del 1870 sorgono stabilimenti di semai. Da questo momento tutte le uova in commercio devono essere ottenute col metodo cellulare. E’ istituito un sistema di controllo scientifico biologico che fa capo al ministero dell’agricoltura. Nascono istituti preposti allo studio di razze forti e resistenti alle malattie, furono immessi nel mercato non più “uova pure” poco resistenti, ma incroci di razze diverse che potevano essere riprodotte solo nei semai autorizzati e solo da questi acquistati.
Per i contadini furono allestite scuole d’allevamento pratico e di gelsicoltura. L’obiettivo era quello di far apprendere l’indispensabilità di un’ottima pulizia e l’esigenza di mantenere sempre il pareggiamento nelle bigattiere. Naturalmente non tutti frequentavano la scuola, molti si rifacevano all’esperienza personale.
38 Il paesaggio agrario dell’Ottocento si andava arricchendo di gelso bianco, che si diffuse ovunque sia nei campi, sia nei prati e a volte a danno di altre colture. Secondo il censimento del 1840 nel vicentino né esistevano duecentomila e fornivano oltre il 26% di fogliame.
39 Una situazione che restò pressoché immutata sino agli anni settanta del Novecento, quando l’industrializzazione cominciò a farsi sentire anche nelle campagne, ma che in alcune locuzioni burocratiche tende anccora a persistere, basti pensare alla dicitura “Maria Rossi in Bianchi” o “Maria Rossi ved. Bianchi”; non troviamo “Mario Vianchi in Rossi” o “Mario Bianchi ved. Rossi”.
40 Già nella Repubblica di Venezia le donne lavoravano in laboratori non solo casalinghi, come canapifici, l’infilatura delle perle o la preparazione dei fiammiferi. E’ però con l’evento della industrializzazione che la donna riconobbe il suo impiego massiccio in fabbrica.
41 L’entrata delle donne negli opifici comportò la possibilità di una loro crescita sia culturale, sia sociale. Emancipazione che non fu però percepita immediatamente e di cui si può valutare l’importanza solo a distanza di anni. Le donne entravano in fabbrica sospinte dalle famiglie, dalla necessità di sopravvivenza famigliare e non per una ricerca di una propria autonomia economica.
42 Nella storia del lavoro si è sempre stereotipato che gli uomini facevano i lavori più pesanti, più faticosi e le donne quelli più leggeri. Un puro falso storico che ha portato al luogo comune del "sesso debole”, ma di fatto non è mai stato così.
43 Conflitti che nascevano piuttosto da un discorso economico che da quello ideologico maschilista, come avvenne qualche decennio più tardi.
44 Le donne rurali coniugate, difficilmente se non per questioni di balia o servizio uscivano dal paese o dal circondario e per lo più si dedicavano alla famiglia e alla terra. L’identità femminile della prima metà del Novecento spazia dai lavori esterni a quelli della casa e della terra.
45 Intervista riportata in GIANCARLO GOZZI, Le stagioni della donna contadina, Editoriale Sometti, Mantova, 2000, p.118. Questa testimonianza ci ricorda l’abitudine che le nostre nonne o madri, hanno ancor oggi, di continuare a servire i commensali e di mettersi a mangiare solo quando questi hanno finito o in piedi durante il servizio ai commensali, come facevano le contadine di qualche decennio fa.
Il concetto che la donna sia un grazioso animale senza anima, con il cervello piccolo e una bestia da “soma” e da riproduzione è presente ancora nel Duemila, nella mentalità di molti maschi come sopravvive il concetto che la donna sia un ingombro, mentre l’uomo è l’unico preposto al proseguimento del nome e della dita famigliare
46 Vedi il saggio precedente “La colombina serve” nel sotto capito “Una balia per mio figlio”, nel presente testo. Per comprendere i sentimenti di queste donne, non dobbiamo ragionare con i concetti che ci siamo costruiti oggi, ma con il fatto che per queste donne, figliare era un dovere più che un piacere e che comunque l’amore che nutrivano per i loro figlioli era poco più di un amore materno dovuto. Quindi non era tanto un dispiacere lasciare il pargolo in altre mani, soprattutto se questo era il terzo, quarto figlio e via dicendo, ma un dovere per il mantenimento della famiglia e un piacere per il proprio ego e il proprio corpo, tanto che alcune fasi del loro lavoro non erano percepite come violenza, bensì come fatti e fasi, normali della loro occupazione.