Irene Rui "QUATTRO SU DIECI", Vampa Edizioni, settembre 2009

 

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Breve storia della resistenza in città

 

Non si può comprendere quello che è accaduto l’11 novembre del 1944, se non si ripercorre la storia socio-politica e i fatti che hanno anteceduto quel tragico evento. Inizierei quindi, con il riassumere brevemente come fu percepito dalla città di Vicenza quel periodo storico che va dagli anni venti al 1944.

 

La città di Vicenza fino al 1943, ebbe un rapporto tranquillo con la guerra. Risentì, infatti, del conflitto né più né meno di altri capoluoghi veneti. La sua conformazione geografica, dava alla popolazione alcuni vantaggi di fruizione alimentare, tanto che le derrate scarseggianti in altri luoghi, in città non mancavano. Quest’apparente tranquillità era garantita anche dalla piena occupazione che la leva militare e le industrie soprattutto tessili assicuravano1. Il costo umano della Seconda Guerra Mondiale fu fino al 1943, in città abbastanza contenuto.2La città da sempre riservata e attenta ai propri interessi economici, per non dire ai suoi affari, dava l’impressione di essere sorniona e fascista. In effetti il dissenso al regime era presente nella classe operaia della provincia, piuttosto che nella popolazione cittadina, e solo in qualche sporadico caso coinvolgeva le classi subalterne urbane che il fascismo non era riuscito ad imbrigliare.3La scarsa circolazione di notizie differenti da quelle del regime, manteneva la popolazione nell’ignoranza, costruiva un’alienazione allo stato di fatto, l’uomo qualunque; d’altronde fu pensiero comune che aderire al fascismo fosse la soluzione migliore per mantenere la propria famiglia e non avere grane. Vi fu un consenso, una diffusa rassegnazione, il senso dell’inevitabile, una sorta di certezza che nulla si potesse fare contro il regime.

 

Che cosa può essere accaduto a Vicenza dopo il mese di luglio del 1943, per aver trasformato una città da apatica e servizievole al regime a partigiana?

 

Nella notte del 25 luglio del 1943,4con la destituzione di Benito Mussolini da capo del governo, il fascismo iniziò a sgretolarsi, la certezza si trasformò in incertezza. I simboli esteriori del fascismo furono rimossi, sparirono i gagliardetti, le foto del duce e dei gerarchi, i distintivi del fascio appuntati all’occhiello. Iniziò un percorso, talvolta individuale e talvolta collettivo, di fuoriuscita dal fascismo, di liberazione dell’animo. La maggioranza della popolazione subì uno sbandamento e rifiutò il regime, mentre per altri vi fu una radicalizzazione dell’ideologia fascista. Da un lato nacque quindi, l’antifascismo che rafforzò la resistenza, ma dall’altro s’intensificò il collaborazionismo con l’invasore, attraverso l’opera della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana), e delle Brigate Nere, feroci contro coloro che si opponevano ai loro ideali di continuità e supremazia fascista.

 

L’apice si ebbe dopo la nomina (il 27 luglio del 1943) del governo Badoglio; i vicentini come tutti gli italiani si credettero liberi, ma nel 1943, altri fatti dovevano accadere: il 9 settembre alle 05.10 il Re e Badoglio abbandonano l’Italia; il 29 settembre, Badoglio firma l’armistizio a Malta5, che mette l’Italia sotto il totale controllo politico e militare degli anglo-americani, e fornisce loro i mezzi finanziari, le strutture logistiche, portuali e di comunicazione (accordo che su richiesta di Badoglio rimarrà segreto).6

 

Il 13 ottobre il governo Badoglio in esilio, dichiara guerra alla Germania.

 

I vicentini, come tutti gli italiani, rimasero frastornati, perduti, e la loro tranquillità fu turbata a partire dalle note vicende relative alla ritirata dei tedeschi.

 

I fascisti si organizzarono e procedettero all’arruolamento nell’esercito repubblichino.

 

Gli sbandati, al ritorno dal fronte o scappati dall’esercito, per non essere deportati dai tedeschi in Germania si nascosero, si dettero alla macchia o parteciparono alla guerra partigiana.

 

Gli uomini di etnia sinta già stretti dalla morsa di provvedimenti razziali susseguiti dal 1940 in poi,7si nascosero e molti si arruolarono nei battaglioni partigiani.

 

Nella pianura vicentina si era formata la divisione Vicenza con sette brigate provenienti da diversi settori territoriali. Tra le sette brigate c’erano l’Argiuna che agiva in città e nei territori limitrofi, comandata da Tom Beltrame; la seconda brigata Damiano Chiesa, costituitasi nel marzo del 1944, che operava dal fiume Tesina al Brenta, al comando di Nei (Bordignon Sebastiano comandante) e Nani (Nani Berto vice comandante).8Ogni brigata aveva al servizio una trentina di squadre di dieci persone che costituivano il “Battaglione Guastatori”. Queste squadre erano scelte sui posti ove c’erano da colpire obiettivi ben definiti come le linee ferroviarie, telegrafiche, telefoniche e di alta tensione, ponti.

 

Nei Colli Euganei operava la brigata “Padova”, poi “Francesco Sabatucci”, affiancata da altre formazioni come la Audace e la Falco. A collaborare con i diversi battaglioni c’erano i patrioti, molti dei quali, prescindendo dalle diverse appartenenze partitiche, avevano deciso di imbracciare comunque le armi per contribuire alla lotta antifascista nel loro territorio. Tra questi troviamo anche i quattro partigiani sinti dei quali racconteremo la storia. Questi collaboravano con le diverse formazioni, a seconda del luogo in cui soggiornavano: a Carmignano di Brenta fornivano aiuto alla “Seconda Damiano Chiesa”, mentre a Cittadella e Fontaniva alla “Prima D. Chiesa”. Per loro non esistevano partigiani cattolici o comunisti: l’importate era contribuire alla liberazione del loro Paese, l’Italia, e all’instaurazione di un governo democratico.

 

Nel settembre del 1944, i tedeschi aiutati dai gerarchi fascisti iniziarono la loro ritirata, con requisizioni di ville, palazzi, dove insediavano provvisoriamente i loro comandi. Nel ripiegare verso nord, iniziarono ad improntare una linea di difesa attraverso fossati, trincee ed altro, che andava da Chioggia, ai colli Euganei nel padovano, a Lovertino di Albettone, ai colli Berici, fino alle prealpi vicentine, con una linea di difesa ad oltranza sulla pedemontana vicentina. Il vicentino sarebbe diventato terra bruciata come, in effetti, avvenne per la città con le incursioni aeree degli alleati.

 

La provincia di Vicenza rivestiva per i tedeschi un’importanza basilare come zona di transito per i rifornimenti alle truppe al fronte e per un eventuale ripiegamento verso la linea del Piave.9

 

I tedeschi, nell’attraversare il territorio vicentino e dirigersi verso il Piave, volevano avere le spalle coperte. Per questo iniziarono veri e propri rastrellamenti di partigiani e della popolazione civile che contribuiva alla resistenza; le case dei malcapitati furono così saccheggiate ed incediate, anche le chiese non furono risparmiate. Ci furono veri e propri eccidi come quello di Sant’Anna Morosina nell’alta padovana. Vi furono fucilazioni, impiccagioni e deportazioni nei confronti di partigiani, di comunisti e dei sinti. Un tedesco valeva dieci italiani. Per un tedesco ucciso, dieci italiani venivano trucidati, fossero essi uomini, donne, vecchi o bambini. A queste stragi efferate partecipavano le Brigate Nere e la Banda Carità di Padova, il cui divertimento principale era picchiare, seviziare, violentare e torturare le loro vittime.

 

Nonostante le violenze diffuse nei territori circostanti, la città di Vicenza fino al 1944, era stata pressoché risparmiata da eccidi o rappresaglie di una certa rilevanza.10

 

Dopo il terribile rastrellamento avvenuto nelle zone limitrofe alla città nel settembre - ottobre del 1944, che non risparmiò i ministri della chiesa,11anche Vicenza fu presa di mira. Diversi furono i morti vicentini anche tra i religiosi.

 

Stanco di tanta violenza Monsignor Carlo Zinato vescovo di Vicenza dal 1943, scrisse una lettera al generale Von Zanthier, comandante militare della Piazza di Vicenza, chiedendo che i soldati tedeschi mettessero fine a tale feroce spargimento di sangue vicentino. Ottenne così la promessa dal comando tedesco che nessun vicentino sarebbe stato più colpito per rappresaglia a Vicenza.12

 

Nel settembre del 1944, malgrado l’intensificarsi e l’estendersi della resistenza nel Veneto come nel resto d’Italia, con i tedeschi in ritirata ma ancora saldamente dislocati nel territorio, il generale Alexander, comandante alleato dello scacchiere del Mediterraneo, proclamò:

 

Partigiani, sospendete le azioni, nascondete le armi, tornate a casa: riprenderete la lotta a primavera.”13

 

Sembrava fosse facile tornare e restare tutti a casa, peccato che la maggior parte dei partigiani fossero ricercati e braccati anche con forti taglie, dalle Brigate Nere e dalle SS, che non vedevano l’ora di averli nelle loro grinfie.

 

Tra le fila dei resistenti vi fu quindi - come ricorda Bressan - una prima reazione di sbigottimento.14Nel loro volto vi si poté leggere disperazione ed incredulità. Tutti compresero ben presto che non rimaneva altro che continuare a combattere per quanto possibile, e così fu. I partigiani si organizzarono per intensificare la loro lotta, per dimostrare sia ai tedeschi sia agli anglo-americani, che la battaglia continuava e che a Vicenza erano ben intenzionati a rendere la vita difficile al nemico. Le azioni erano effettuate contemporaneamente in zone molto vaste e questo non solo per motivi strategici, ma specialmente per evitare rappresaglie nei confronti della popolazione che era per la resistenza un aiuto indispensabile.

 

La notte tra l’8 e il 9 novembre si volle dare un segnale forte ai tedeschi. La squadra di guastatori guidata da Plinio Quirici composta da una trentina di uomini,15con una carica “cava” di materiale plastico, confezionato in modo rudimentale, ma potente e come si dimostrò efficace, collegata con un innesco chimico a tempo,16al passaggio di un convoglio fece saltare un’arcata del Ponte dei Marmi,17nei pressi dello stadio Menti, sul Bacchiglione; ebbe la peggio la locomotiva, che si trovò sospesa sopra il fiume nella breccia creata dall’esplosione.18

 

La risposta della “giustizia tedesca” fu immediata. Su ordine del generale Von Zanthier e grazie al suo solerte collaboratore, il tenente Fritz Herke delle SS, nell’umida e piovigginosa mattinata dell’undici novembre, dieci partigiani furono prelevati dal carcere circondariale di Piazza Castello a Padova e condotti al Ponte dei Marmi. Qui furono fatti scendere legati uno ad uno e messi in riga; furono lasciati pochi istanti al padre francescano Federizzi, del convento di San Lorenzo, per impartire i conforti religiosi. Poi, fatti salire sulla ferrovia uno alla volta, vennero stroncati dalle raffiche uno per uno, in modo che ognuno di essi potesse vedere la fine che faceva il compagno che lo precedeva. È facile immaginare quanto angoscianti siano stati quei lunghissimi minuti prima dell’esecuzione. Sul loro volto si poteva notare il dolore, leggere gli istanti della loro vita trascorrere come un film e i loro pensieri verso le persone amate, le mogli, i figli e i compagni lasciati a combattere da soli. Il plotone d’esecuzione portò a termine diligentemente il suo compito. Vi fu in un istante un’alternanza agghiacciante di spari, si udirono urla di dolore e poi silenzio.

 

I loro corpi furono abbandonati alle intemperie per quarantotto ore, le loro anime lasciate vagare in cerca di pace, e tutto per dimostrare “la giustizia tedesca”.

 

L’oltraggio di questi corpi non finì in quei giorni: essi dovettero subire anche l’indecisione se seppellirli in fossa comune o singolarmente finché, dopo cinque - sei giorni, padre Federizzi intervenne presso le autorità militari chiedendo le generalità dei caduti e offrendosi di provvedere all’inumazione in fosse separate. Così cinque di loro furono seppelliti il 18 novembre del 1944 nel campo del Cimitero Maggiore di Vicenza, con croci di legno che ne riportavano le generalità.19

 

Monsignor Zinato, saputo dell’avvenuta fucilazione, rifiutò di ricevere l’ufficiale tedesco di collegamento, con queste parole “Mi rifiuto di ricevere chi non mantiene la parola data!”.A nulla valse la dimostrazione da parte dell’ufficiale che erano uomini provenienti dalla provincia di Padova.20

 

Chi erano i dieci martiri del Ponte dei Marmi?

 

  • Catter Walter Vampadi Fiorindo, nato a Francolino di Ferrara il 19 dicembre del 1914,21di professione circense, arrestato a Belvedere di Tezze sul Brenta, tra il 21-22 ottobre, patriota.
  • Gemmo Livio nato a Campiglia dei Berici nel 1924, arrestato a Bastia di Rovolon, della divisione partigiana “F. Sabatucci”

  • Festini Lino Ercole nato a Milano nel 1916, di professione musicista-teatrante, arrestato a Belvedere di Tezze sul Brenta, tra il 21-22 ottobre, patriota.

  • Menardi Angelo nato a Barbarano Vic.no nel 1924, arrestato a Bastia di Rovolon, della divisione partigiana “F. Sabatucci”.

  • Molon Guido detto “Turchia”, nato a San Bortolo di Monselice nel 1920, arrestato il 31 ottobre del 1944, dalla Guardia Nazionale Repubblicana di Monselice, della brigata Falco, divisione “F. Sabatucci”.22

  • Montemezzo Aldo e Navarrini Massimiliano partigiani della divisione Garibaldina “F. Sabatucci” ex battaglione poi brigata “Audace”, Pasqualin Luigi vice commissario, sotto tenente dell’ex battaglione “Audace”, poi Brigata “Audace”, comandante della brigata “Contiero”: tutti sui vent’anni di Carbonara di Rovolon.23Arrestati il 3 ottobre perché trovati in possesso di una rivoltella, venero legati e bendati per essere condotti nelle carceri di Padova.24

  • Paina Silvio nato a Mossano nel 1902, di professione girovago-circense, arrestato a Belvedere di Tezze sul Brenta, tra il 21-22 ottobre, patriota.

  • Mastini Renato (nome di battaglia Zulin Giacomo)25nato a Copparo in provincia di Ferrara nel 1924, di professione circense, gestiva con la moglie un tiro a segno, arrestato a Belvedere di Tezze sul Brenta, tra il 21-22 ottobre, patriota.

Tre di questi ragazzi erano sinti e uno, Silvio Paina, aveva sposato una ragazza sinta.26Erano tutti e quattro dei patrioti che operavano tra Carmignano di Brenta e Belvedere di Tezze sul Brenta, senza appartenere ad un battaglione particolare, ma collaboravano alla guerra partigiana per difendere il loro Paese, l’Italia. Aiutarono, nelle loro spedizioni, la prima e la seconda brigata “Damiano Chiesa”. Mastini prese parte anche alle spedizioni di una delle brigate della “F. Sabatucci”.

 

 

 

La loro storia

 

I quattro si erano incontrati nel settembre del 1944 a Sant’Anna Morosina, dove le famiglie di Catter, Festini e Paina avevano allestito il loro campo per esercitare la loro attività di spettacolo viaggiante.

 

Catter e Paina erano cognati, mentre Festini aveva sposato la cugina della moglie di Mastini, Nora Puliuti.27A Sant’Anna Morosina queste famiglie sinte intrattenevano il pubblico con spettacoli teatrali e circensi, con il gioco delle tre carte, dei campanelli e con il tiro a segno.

 

Il Mastini con la moglie Vicenzina si unì dopo qualche giorno alle altre famiglie.

 

Il Mastini e la famiglia della signora Pevarello28provenivano da Brescia, dove vivevano e operavano i parenti di lei. Durante i loro trasferimenti si erano fermati per qualche tempo a Montagnana. Qui il Mastini entrò in contatto come patriota con la brigata Falco della divisione “F. Sabatucci”,29ma fu catturato tra agosto e settembre a Bastia di Rovolon, insieme ad un altro partigiano, dalla Guardia Nazionale Repubblicana. Riuscito ad evadere insieme al suo compagno dalla finestra del carcere di Monselice, raggiunse i parenti a Montagnana. Da qui, insieme alla moglie Vicenzina, si mise in viaggio verso l’alta padovana, per scappare alla GNR, assumendo il nome di Zulin Giacomo. A fine settembre raggiunse a Sant’Anna Morosina, quelli che sarebbero diventati i suoi compagni di sventura. A Sant’Anna, installarono il loro tiro a segno e mentre i vecchi, le donne e i bambini gestivano gli spettacoli, i quattro iniziarono insieme la loro attività di patrioti. Partivano di sera per le loro missioni di sabotaggio,30raccontando alle donne che andavano a ballare o in osteria, allontanandosi invece per qualche giorno alla volta della località Boschi di Carmignano di Brenta,31nei pressi del fiume Brenta. Mentre i patrioti erano in azione le carovane continuavano a percorrere i territori limitrofi, singolarmente o insieme. A Belvedere di Tezze sul Brenta, le famiglie si erano riunite e avevano allestito il loro campo nei pressi dell’Osteria Berti.

 

Il 21 o 22 ottobre del 1944, a seguito di una confessione estorta sotto tortura, la Brigata Nera di Camposampiero32venne a conoscenza che i patrioti si accingevano a raggiungere le loro “campine” per riunirsi alle loro famiglie e per il cambio di indumenti. All’improvviso nella mattinata la signora Vicenzina vide arrivare un reparto di fascisti che circondò il campo. La squadraccia, composta da una trentina di brigatisti guidati dal famigerato Nello Allegro, detto lo “Zoppo”, e dal federale Vivarelli mitragliarono le "campine" e rastrellarono tutti i loro abitanti: vecchi, donne e bambini non furono risparmiati da tale ferocia. Tutti furono portati davanti alla parete dell’Osteria Berti che dava sulla strada,33e messi al muro in fila per la fucilazione.

 

Nell’attesa dell’arrivo di “Gamba Stenca”,34gli squadristi cominciarono a maltrattare duramente i quattro patrioti, minacciando di fucilare tutti se non avessero svelato dove erano nascosti i partigiani con cui operavano.35Furono per questo barbaramente massacrati di botte sia con il calcio del moschetto, sia con quello della mitraglietta e furono presi a calci e pugni; anche le donne furono prese di mira mentre cercavano di dare soccorso ai loro uomini. La signora Vicenzina, incinta al quarto mese della figlia Mirka, fu colpita da un brigatista con il calcio del moschetto e cadde nel vicino fossato pieno d’acqua. Stessa sorte toccò ad Elvira, moglie di Catter, in attesa di due gemelli.

 

In particolare Lino Festini fu ridotto in uno stato pietoso: aveva un occhio che sembrava fuoriuscire dall’orbita, mentre la moglie Nora continuava a gridare inorridita, con le mani sulla testa:“Il mio Lino, cosa fate al mio Lino!”.

 

Quando finalmente arrivò la Balilla di “Gamba Stenca”, questi spalancò la porta e nello scendere picchiò con il suo bastone ad un fianco la signora Vicenzina che nel fra tempo si era avvicinata al gerarca per chiedere spiegazioni.

 

“Gamba Stenca” non ordinò la fucilazione, giacché aveva fretta di procedere per un ulteriore rastrellamento, ma permise il trasporto dei quattro patrioti a Camposampiero. I fascisti caricarono Catter, Festini, Mastini e Paina sulle biciclette, dato che le macchine e i camion erano già pieni; inoltre, legato sul portellone posteriore di una Fiat Topolino, c’era colui che aveva fatto la spia a seguito della tortura.

 

Rinchiusi nel carcere allestito presso le scuole di Camposanpiero, iniziò il loro calvario. Furono torturati da Nello Allegro e dagli altri brigatisti.36

 

Martirio che continuò finché - a distanza di qualche giorno – non furono trasferiti a Piazzola sul Brenta, nei sotterranei di Villa Camerini trasformati in carcere, dove proseguirono le stesse torture. Torture alle quali prese parte anche il federale Vivarelli.37

 

Secondo il racconto di un testimone collaborazionista, per “pranzo e cena” i detenuti ricevevano calci, pugni e bastonate; le pareti delle celle erano schizzate di sangue.38

 

Nel frattempo Vicenzina ed Elvira Catter si trasferirono con i loro familiari verso Piazzola. Le due donne si presentarono dal tenente Mayer e chiesero di poter vedere i loro mariti. Permesso, che ovviamente non fu concesso. Fuori dalla villa si udivano le grida di aiuto e di dolore dei loro uomini: “Mio marito gridava - Ci stanno ammazzando! - ”,ricorda la signora Vicenzina.

 

I quattro sfortunati rimasero detenuti a Piazzola fino ai primi di novembre per essere poi trasferiti al carcere circondariale di Piazza Castello a Padova. Lì i maltrattamenti continuarono finché giunse l’11 novembre del 1944,39giorno in cui questi ragazzi furono prelevati insieme ad altri sei su ordine del generale Von Zanthier e del suo collaboratore il tenente Fritz Herke delle SS, per essere fucilati al Ponte dei Marmi. Nel frattempo la signora Vicenzina che si era trasferita con la compagnia a Cittadella, non aveva perso la speranza di ritrovare il caro Renato: si incamminò con Elvira, alla volta delle carceri padovane in cerca dei mariti, ma quando furono ivi giunte fu loro riferito che i quattro erano stati liberati e spediti a lavorare per la Todt lungo il Piave.40

 

La signora Vicenzina non si diede per vinta e si rimise in viaggio a piedi da sola percorrendo tutto il Piave: da Fagarè fino a Ponte delle Alpi, a destra del fiume e a sinistra, fino a Ponte di Piave. Ma del marito non c’era traccia. Decise allora di ritornare a Padova, dove giunse dopo l’undici novembre per sentirsi dire dal personale del carcere che si erano sbagliati e che Mastini e gli altri erano stati spediti in Germania. Solo alla fine della guerra seppe, grazie al fratello partigiano Osiride Pevarello, che Renato e gli altri compagni erano stati trucidati con altri sei partigiani a Vicenza, l’11 novembre del 1944.

 

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1Le Industrie tessili come la Rossi, ma anche quelle meccaniche, dal conflitto traevano interesse produttivo e nonostante gli uomini fossero al fronte, non avevano problemi di manodopera. Infatti, come accade per il primo conflitto, le donne presero il posto dei mariti, padri e fratelli. Vedi testi sulla storia dell’industrializzazione vicentina.

 

2 Ernesto Brunetta, la Resistenza, in Storia di Vicenza, l’età contemporanea IV/I, Neri Pozza Editore, Vicenza 1991, p. 155.

 

3 ibid.

 

4 Storia d’Italia, cronologia 1815-1990, De Agostini, Novara 1991, p. 495.

 

5 Ci si riferisce all’armistizio lungo che lega ancora nel XXI secolo, l’Italia a quegli accordi. Quello corto fu firmato il 3 settembre del 1943 a Cassibile e permise lo sbarco degli Anglo-americani in Sicilia. Vedi Storia D’Italia, cronologia 1815-1990, De Agostini, Novara 1991,

p. 499.

 

6 Ibid.

 

7 Ci si riferisce ad una nota dell’allora Ministero dell’Interno dell’11 settembre 1940. L'11 settembre 1940 furono infatti, emanate le prime disposizioni per l'internamento degli “zingari” italiani: una circolare telegrafica del Ministero degli Interni, firmata dal capo della polizia Bocchini e indirizzata a tutte le prefetture fa esplicito riferimento all'internamento degli “zingari” italiani, dando per scontato il fatto che, in base ad altre direttive “quelli stranieri” debbano essere respinti e allontanati dal territorio del regno. Nella circolare è scritto che "sia perché essi commettono talvolta delitti gravi per natura intrinseca et modalità organizzazione et esecuzione, sia per possibilità che tra medesimi vi siano elementi capaci di esplicare attività antinazionale... est indispensabile che tutti zingari siano controllati". Si dispone quindi "che quelli nazionalità italiana certa aut presunta ancora in circolazione vengano rastrellati più breve tempo possibile et concentrati sotto rigorosa vigilanza in località meglio adatte ciascuna provincia...". Vedi La persecuzione degli zingari da parte del fascismo in www.storiaXXIsec.it .

 

8 Vedi Benito Gramola – Annita Maistrello, la divisione partigiana Vicenza e il suo battaglione Guastatori, ed.La Serenissima, Vicenza 1995. Gaetano Bressan, Dieci martiri, Neri Pozza Editore, Vicenza 1985, pp. 15-16.

La seconda brigata Damiano Chiesa fu comandata in un primo momento da Gaetano Bressan e poi passò a “Nei”, Bordignon Sebastiano.

In questo opuscolo ho accennato solo a queste due brigate poiché sono quelle coinvolte insieme alla Falco e alla Audace della Divisione “F. Sabatucci”, nei fatti raccontati.

 

9 Benito Gramola – Annita Maistrello, La Divisione Partigiana Vicenza e il suo battaglione guastatori, La Serenissima, 1985, p. 44.

 

10 Testimonianze di quanto affermato le possiamo trovare nel documento di Gaetano Bressan, Dieci martiri, Neri Pozza Editore, Vicenza 1985 e in Benito Gramola – Annita Maistrello, La Divisione Partigiana Vicenza e il suo battaglione guastatori, La Serenissima, 1985.

 

11 Furono trucidati a seguito dei rastrellamenti anche Don Piero Franchetti parroco di San Rocco di Tretto e don Luigi Bevilacqua, parroco di San Pietro Mussolino.

 

12 Gaetano Bressan, Dieci martiri, Neri Pozza Editore, Vicenza 1985 e in Benito Gramola – Annita Maistrello, La Divisione Partigiana Vicenza e il suo battaglione guastatori, La Serenissima, 1985. Documenti redatti da Gino Cerchi, Giordano Campagnolo e Antonio Emilio Livore con il titolo “Contributo per una storia della resistenza in provincia di Vicenza”,tratto da Cultura Tradizione Memoria Storia vicentina, bimestrale anno II n. 2 marzo-aprile 1995, p. 30.

 

13 “Per motivi strategici, il comando supremo alleato americano, nel settembre del 1944 sottrasse dal fronte italiano numerose divisioni per lo sbarco nella Francia del sud, in Provenza, e così l’offensiva alleata perse lo slancio e il fronte si fermò da La Spezia a Pesaro”. Gaetano Bressan,Dieci martiri, Neri Pozza Editore, Vicenza 1985, pp.19

 

14 Gaetano Bressan, Dieci martiri, Neri Pozza Editore, Vicenza 1985.

 

15 Così mi raccontò il fu Erio Zentile, negli ultimi mesi della sua vita (quando era ancora lucido), ricordando il suo periodo nella resistenza partigiana in città a Vicenza. Egli fece parte infatti, di quella spedizione che insieme a Bianco e ad altri di cui non ricordo i nomi, fece saltare il Ponte dei Marmi; si ricordò benissimo che lui ed un altro compagno avevano il compito di allontanare le guardie ferroviarie, in modo che non ci fossero feriti, tant’è che li presero in ostaggio per un breve lasso di tempo, quanto necessario per l’operazione.

 

16 Il materiale proveniva dai lanci effettuati a San Pietro in Gù, Carmignano di Brenta, Gazzo Padovano, Novoledo e nei colli Berici.

 

17 Questa tratta ferroviaria era ed è, particolarmente importante perché vi passano le linee Milano/Venezia – Vicenza/Treviso/Udine – Vicenza/Thiene/Schio.

 

18 Per liberare la ferrovia che era rimasta bloccata furono necessari tre giorni di lavoro, dato che fu necessario allargare la breccia e far precipitare la locomotiva nell’acqua sottostante.

Tratto dai documenti redatti da Gino Cerchio, Giordano Campagnolo e Antonio Emilio Livore con il titolo “Contributo per una storia della resistenza in provincia di Vicenza”,tratto da Cultura Tradizione Memoria Storia vicentina, bimestrale anno II n. 2 marzo-aprile 1995, p. 30.

 

19 Cinque di loro Gemmo, Menardi, Montemezzo, Navarrini e Pasqualin, furono seppelliti da subito nei cimiteri dei loro paesi di origine, Molon attese il 1962. La salma di Mastini fu trasportata dai familiari, a Latina nel 1963, mentre come da foto a p. 42 del quaderno, Catter, Festini e Paina, furono nel 1963 tumulati nell’ossario vittime civili della Guerra, con la data del 28 aprile del 1945, ultima incursione aerea nella città.

 

20 Tratto da “La guerra attraverso l’obiettivo di Sandrini, Ponte dei Marmi,” nella rivista Cultura tradizione memoria storia vicentina bimestrale anno II n. 2 marzo-aprile 1995, la guerra di liberazione, Scripta Edizioni, p. 30.

 

21 Vedi atto di nascita a pp. 40 - 41 del quaderno.

 

22 Molon fu coinvolto il 30 ottobre del 1944 in un rastrellamento presso la località Canova di Galzignano. Dalla testimonianza del patriota Ampelio Minelle si tratò di tradimento. Testimonianza riportata in Aronne Molinari, La Divisione Garibaldina “F. Sabatucci”, Padova (1943 – 1945), Forcatoeditore, 1977, p. 120. Mentre nel saggio di Gios, si afferma che“Dalla confessione, infatti, di uno dei suoi uomini, Guido Molon, detto Turchia, arrestato il 31 ottobre a Padova… le SS tedesche, collegate con i repubblichini di Monselice, di Este, e di Padova, seppero individuare subito, in alcune case di Galzignano, il rifugio dei patrioti e sorprenderli di notte.” Pierantonio Gios, Resistenza, parrocchia e società, nella diocesi di Padova 1943 –1945, Marsiglio Editori, 1981, p. 279. Tradimento o confessione?

 

23 Pierantonio Gios, Resistenza, parrocchia e società, nella diocesi di Padova 1943 –1945, Marsiglio Editori, 1981, p. 282. La citazione di Gios risulta in contrasto con gli atti pubblicati nel testo di Arone Molinari, in quanto Gios afferma in base alla cronistoria di Carbonara che appartenevano alla Brigata Pierobon, mentre Molinari afferma dagli atti della divisione “F. Sabatucci” che fossero della brigata “Audace” e “Contiero”.

 

24 Vedi Aronne Molinari, La Divisione Garibaldina “F. Sabatucci”, Padova (1943 – 1945), Forcatoeditore, 1977, pp. 102 e 128. Pierantonio Gios, Resistenza, parrocchia e società, nella diocesi di Padova 1943 –1945, Marsiglio Editori, 1981, p. 282.

 

25 Agli atti del Cimitero Maggiore di Vicenza il nome di battaglia era Zuglini Giacomo che in ogni modo potrebbe essere stato trascritto in modo errato visto che dagli atti stessi sono trascritti luoghi di nascita dei dieci martiri, diversi da quelli attestati dai certificati di morte.

 

26 La popolazione sinta proviene probabilmente dai territori intorno al fiume Sindh, in India nord-occidentale. Durante la loro migrazione in Europa, alcuni giunsero attorno al 1350 in Italia. Le presenze più significative sono documentate a partire dal 1422: viaggiavano con carri e cavalli ed erano dediti alle arti circensi, teatranti e musici; intrattenevano le corti europee e le popolazione di villaggi e città. Dalla fine dell’800 molti si dedicarono anche all’attività di giostrai.

Dopo aver seguito per secoli uno stile di vita mobile dovuto alla ricerca di fonti di reddito o per tradizione familiare, a partire dal secondo dopoguerra ha iniziato un forte processo di sedentarizzazione.

 

27 Tutto ciò che sarà raccontato in queste pagine è stato possibile ricostruirlo grazie alla testimonianza rilasciata l’8 e il 19 settembre 2008, dalla signora Vicenzina, Erasma Pevarello, vedova del Mastini.

 

28 La Signora Erasma Pevarello, Vicenzina, vedova del Mastini.

 

29 La signora Vicenzina, non si ricorda con quale brigata, anche perché fu sempre tenuta all’oscuro, come del resto la famiglia, delle missioni del marito. Percorrendo i movimenti del Mastini e ricostruendo le brigate che operavano nella zona, possiamo supporre che probabilmente appartenesse alla brigata Falco.

 

30 Probabilmente erano presenti con il gruppo alle azioni di Fontaniva del 28 settembre del 1944. La loro area di azione era, infatti, tra Fontaniva e Carmignano. Vedi quanto riferito dai Notiziari della GNR della provincia di Padova.

 

31 La località Boschi oggi è una zona ad est di Carmignano di Brenta, a confine con il fiume Brenta.

 

32 La Brigata Nera di Camposanpiero erano da qualche tempo sulla traccia di questi patrioti e dei partigiani che costituivano il loro battaglione, appartenente alla seconda brigata Damiano Chiesa, ma non siamo riusciti a ricostruire dalle testimonianze, a quale gruppo i quattro patrioti, potessero appartenere. Patrioti che non sono stati registrati in quanto girovaghi ed in azione solo da qualche mese dal loro arresto ed uccisione.

 

33 La villa di origine cinquecentesca, residenza agricola di Ezzelino da Romano e poi dei Dogi veneziani, fu lasciata per lungo tempo in stato di decadimento. Fu acquistata nel 1943 dalla famiglia della signora Bruna Bressan e trasformata in osteria con alloggio. Oggi, completamente ristrutturata è la sede dell’Hotel Villa Pigalle. Il muro che ha visto passare diversi partigiani e persone civili per le armi o finte fucilazioni, compresa la proprietaria, è ancora là, e costituisce una parete interna del servizio di ricevimento. All’epoca era una parete esterna che dava sulle scuderie, una parete diroccata dal tempo e dalle calamità naturali. Nei pressi dell’osteria passava una strada sterrata delimitata da un fosso e attorno c’era solo campagna. Secondo la testimonianza della signora Bressan, l’osteria Berti costituiva una zona di rifugio dei partigiani di notte, mentre di giorno era un ritrovo dei fascisti. Di notte i partigiani si nascondevano nelle boscaglie di rovi e salici ma qualche volta anche nel locale, che di giorno era luogo di incontro di militi e squadre repubblichine.

Lo stesso “Gamba Stenca” nel 1945, fu catturato nel luogo dai partigiani insieme ad un suo maresciallo.

 

34 “Gamba Stenca” a Schio, “Gamba Stecca di Legno” a Cittadella, non era altro che Lamberto Ceccato, ricordato dalla stessa Signora Vicenzina per la sua ferocia e per la barba rossa, fratello del brigadiere della GNR Livio Ceccato. Era comandante nella zona tra Schio e Cittadella. Poiché la Brigata Nera di Camposanpiero aveva oltrepassato il proprio territorio di competenza per catturare i patrioti sinti fino alla zona del Ceccato, per rispetto delle regole militari dovevano attendere la sua autorizzazione per procedere a un’eventuale fucilazione o al trasporto dei prigionieri nelle carceri di Camposanpiero.

 

35 Neppure le torture e le percorse successive riuscirono a far aprire la bocca ad uno di loro, tant’è che sono morti con il loro segreto.

 

36 E’ probabile che i quattro patrioti siano stati portati in stanze diverse e come accadeva in genere per altri casi, a turno, ferocemente pestati, e visto - da quanto si è appreso – che desistevano dal rivelare il nascondiglio dei partigiani, i brigatisti intensificassero le torture. Per prassi le brigate nere usavano le scariche elettriche. Uttilizzavano una cassettina rettangolare munita di una manovella girevole, con due fori laterali, dai quali uscivano due fili elettrici. I brigatisti, si suppone, iniziassero con l’attorcigliare le estremità dei fili - privati della materia isolante - ai polsi del patriota e dopo pochi minuti incominciassero a girare la manovella. In questo caso si può immaginare la sensazione che questo poveretto provò: il suo organismo sembro sfasciarsi, il cuore arrestarsi e il respiro mancare. La tortura solitamente proseguiva per le orecchie e finiva ai genitali. Molto probabilmente i compagni udirono le urla inumane, quando picchiavano, mentre durante le scosse elettriche, i ragazzi venivano imbavagliati per impedirne le urla. Le scosse elettriche dietro le orecchie provocavano perdita della sensibilità, del controllo sfinterico e della minzione, stordimento e lesioni cerebrali che potevano portare anche al decesso, comunque ledere il timpano e il sistema cerebrale. Ingiurie, calci, pugni e torture di ogni genere: il partigiano veniva trascinato fuori dalla camera, fradicio nelle loro feci, delle unghie e dei denti, all’accecamento, con l’aggiunta di altre per essere riportati in cella. Le torture talvolta arrivavano allo strappo fantasiose bestialità.

 

37 A Piazzola sul Brenta, nella Villa Camerini, aveva sede il distaccamento delle SS “Sichereits Dienst” al comando del tenente Meyer.

 

01334564686#sdfootnote38anc">38 Così riferì un personaggio conosciuto dalla signora Vicenzina, di nome Severino, membro della Brigata Nera. Incontrandole per strada mentre andavano a trovare i mariti a Piazzola, il fascista si rivolse alle due “belle signore” salutandole e chiedendo loro dove stessero andando; esse risposero ingenuamente la verità, e allora questi ribatté: “Sapete, diamo sempre da mangiare a pranzo e a cena ai vostri mariti!”. Che bravi – replicarono le due donne - almeno ci pensate voi!”. E quello “Sapete cosa diamo da mangiare ai vostri mariti? Legnate, a pranzo e a cena!” e si mise a ridere proseguendo per la sua strada.

 

39 Nel carcere era allestita una cella dove venivano radunate a turno le persone che venivano fatte passare per le mani degli aguzzini. Qui calci, pugni, bastonate ed altro ad opera dei fascisti, nei confronti dei partigiani reclusi e dei civili che aiutavano la resistenza, erano la prassi.

 

40 La Todt era un’organizzazione tedesca voluta dal ministro Fritz Todt. Il suo compito era quello di reclutare lavoratori stranieri per eseguire opere di carattere civile e militare. La maggior parte dei lavori consisteva nello scavo di trincee e nella costruzione di fortilizi per preparare un nuovo fronte nel caso la linea Gotica avesse ceduto. Nonostante fosse diretta da tedeschi, tale organizzazione offriva per chi intendeva lavorarvi una specie di salvacondotto che garantiva una certa, anche se minima, protezione.
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